Le armi, le protezioni, e alcune nozioni di balistica, nel romanzo “Il caso Van Helsing”.
In diretta relazione alla mia passione per la storia, ma anche per lavoro e diletto, ho coltivando un discreto interesse per l’oplologia (studio delle armi e dei sistemi di combattimento).
Non è infatti possibile negare l’essenziale ruolo rivestito dalle armi, tecniche di combattimento, tattiche e strategie militari, nella storia umana.
Senza la falange macedone, la conquista dell’impero persiano da parte di Alessandro il Grande, con tutte le conseguenze che ne sono derivate, sarebbe stata impossibile, così come, senza le strategie e l’attento addestramento delle sue milizie, Roma non avrebbe mai conquistato mezzo mondo.
Talvolta la loro evoluzione ha mutato l’intera società.
Prendiamo ad esempio il germe rivoluzionario introdotto dalle armi da fuoco portatili.
Prima di allora, solo i nobili, e i loro fedelissimi sottoposti, potevano permettersi costosissime armature, cavalli addestrati, tempo da dedicare agli allenamenti che iniziavano fin dalla tenera età. Era l’epoca dei guerrieri, una casta che con la forza deteneva il potere assoluto.
Nessun popolano poteva competere con loro, sia perché non disponeva di armi adatte, ma soprattutto perché incapace di sfoggiare le sofisticate tecniche di combattimento con la spada, per non parlare di quelle necessarie per combattere a cavallo .
Poi, a un tratto, con un “focile” in mano e qualche giorno di addestramento, il più umile dei contadini era diventato in grado di sconfiggere il più nobile dei cavalieri… un’epoca finiva e un’altra iniziava.
Personalmente sono convinto che l’arma sia solo uno strumento, e che sia la mano, e soprattutto la mente, di chi la usa a renderla buona o cattiva.
Tornando ai miei romanzi, le armi , le caratteristiche tecniche e balistiche che troverete riportate, sono piuttosto precise, anche se talvolta stravolgono i miti e le leggende metropolitane che cinema e TV sono soliti propinare.
Ne “Il caso Van Helsing”, ad esempio, sfato il mito del revolver calibro 38 Special.
Il potere di arresto di tale cartuccia, specie se sparata in canne cortissime come quelle dei Snub nose (muso smussato, cioè con canna corta) tanto cari ai detective americani anni ’70 e ’80, in realtà è piuttosto scarso.
Nelle tabelle stilate da Evan Marshall, lo stopping power di questa vetusta cartucciona (risale al 1899, all’epoca della polvere nera), è sovrapponibile a quello del 9 corto, e non distante dal vituperato 7,65 Browning, calibri camerati in armi altrettanto compatte, ma più controllabili e con un maggiore numero di colpi a disposizione.
Solo nei caricamenti forzati (+P = maggiore pressione) e con proiettili espansivi, detti HP (Hollow point), vietati in Italia e in tutta Europa, il potere di arresto aumenta apprezzabilmente.
Ormai relegato al ruolo di backup, cioè di arma di emergenza, da usare quando quella principale non è disponibile, il revolver gode ancora di qualche favore per l’affidabilità delle armi a tamburo che “non si inceppano mai”. Affermazione in massima parte veritiera, ma non assoluta: al sottoscritto è capitato che il percussore di un Smith & Wesson si sia incastrato in un innesco (capsula che provoca l’accensione della polvere presente nel bossolo) difettoso, bloccandolo irrimediabilmente, e rendendo necessario l’intervento dell’armaiolo.
Anche la ventilata maggiore prontezza nell’uso è un’affermazione ormai superata e risale, assieme a quella della maggiore sicurezza, a decine di anni fa, prima che le semiautomatiche disponessero di sistemi di scatto in doppia azione (cioè, si spara semplicemente premendo il grilletto, senza armare il cane manualmente, o scarrellare, per il primo colpo) e della sicurezza al percussore (dispositivo meccanico che impedisce di sparare se il grilletto non viene completamente premuto). Quanto alla supposta maggiore facilità d’uso, mi permetto di dissentire: con un revolver, per far fuoco con sufficiente velocità di ripetizione, è necessario adoperare sempre la doppia azione, altrimenti bisognerebbe armare manualmente il cane ad ogni colpo, mentre, con una semiautomatica, tale modalità si adopera solo per il primo perché poi il cane si riarma automaticamente e si spara in “singola azione”. Per capire la differenza, rispetto al funzionamento in singola azione, l’escursione del grilletto in doppia azione è molto più lunga, e la forza da applicare da due a tre volte superiore, ne consegue una minore velocità e precisione nel tiro rapido e la necessità di uno specifico e continuo allenamento.
Un altro mito da sfatare è l’effetto coreografico dei proiettili quando colpiscono un essere umano (o un qualunque altro animale) che film, e serie TV, ci hanno propinato. Il soggetto colpito non verrà mai spinto all’indietro dal proiettile, né la sua corsa arrestata (ne sanno qualcosa i cacciatori di grossi animali selvatici), ma, se il colpo risulterà immediatamente fatale, più probabilmente provocherà una sua caduta nella direzione di marcia.
Unica eccezione è se si indossano protezioni balistiche, perché, in questo caso, l’energia del proiettile non verrà “consumata” nella penetrazione, scaricandosi tutta sulla superficie del giubbotto.
Tornando alle pistole, occorre precisare che un proiettile sparato da un’arma corta ha comunque a disposizione un’energia modesta, che varia da 200-300 joule (7,65 Browning, 9 corto e 38 Special) a 450 – 800 Joule (9×21, 9 Parabellum, 40 S.&W., 45 ACP e 357 magnum), e che viene essenzialmente usata per la penetrazione, tanto che, per i calibri più performanti, con pallottole non espansive, esiste il pericolo di una eccessiva penetrazione con completo attraversamento del corpo e residua pericolosità del proiettile.
Anche l’effetto del munizionamento per arma corta nelle pellicole è spesso esagerato.
La bassa velocità di questi proiettili provoca modestissime cavità temporanee nei tessuti che attraversano, che spesso si riducono al solo tramite (la zona “strappata” dal passaggio del proiettile), che aumenta solo di poco nei caricamenti più veloci.
Solo se il proiettile viaggia attraverso i tessuti a velocita supersoniche (più di 340 metri al secondo) o ipersoniche, si crea il cono di Mach con relativa onda d’urto che si propaga nel corpo danneggiando organi distanti fino a 10-20 centimetri dal tramite, ma questo, in pratica, accade solo usando munizioni per fucile con energie, e soprattutto velocità, impensabili per le armi corte.
L’effetto c.d. “esplosivo” si ottiene solo a velocità prossime o superiori agli 800 metri al secondo.
Per fornire qualche esempio pratico, un proiettile calibro 9×21 appena uscito dalla canna di una pistola viaggia mediamente a 300-340 metri al secondo, un 45 si attesta sui 250-270 m/s, un 38 Special in canna corta si ferma a 200-230 m/s, mentre un 357, sempre in canna corta a 320- 350 m/s. (con palle più leggere si sfiorano i 380-400 m/s). Per contro, un 5,56 NATO, il calibro standard per i fucili d’assalto in dotazione alle forze armate occidentali, supera i 940 m/s.
In conclusione, dimenticatevi i balzi all’indietro dei cattivoni colpiti dalla pallottola del detective di turno, sia essa sparata da una pistola che da un fucile a pompa (altra leggenda metropolitana), o la morte istantanea del soggetto causata da un proiettile di pistola.
Solo un colpo alla testa o alla colonna vertebrale che interrompa la trasmissione degli impulsi cerebrali assicura l’arresto istantaneo; colpire ogni altra zona, cardiaca inclusa, non assicura l’immediata cessazione dell’attività, compresa quella di rispondere al fuoco.
Molto dipenderà dalla condizione fisica del soggetto (assunzione di droghe o alcool, addestramento, ecc.) e da quella psicologica (stress, motivazione, rabbia, ecc.), ma rimane comunque molto rischioso ingaggiare un conflitto a fuoco se si è armati di pistola, situazione possibilmente sempre da evitare, non solo per le possibili conseguenze fisiche (restare feriti o peggio non è un evento raro), ma anche morali (privare un essere umano della vita è quanto di peggio possa capitare) e legali (la legittima difesa è spesso difficile da provare).
La casistica degli effetti sull’uomo di colpi d’arma corta è quanto mai variegata: esistono casi di persone che sono rimaste “congelate” istantaneamente da proiettili che li hanno colpiti di striscio, o che hanno attinto zone periferiche. Si sono addirittura registrati casi nei quali qualcuno, ferito non gravemente, è deceduto per sopraggiunto shock cardiocircolatorio (in pratica è morto di paura), ma, al contrario, sono stati registrati casi di malviventi o terroristi che, feriti mortalmente, prima di soccombere, hanno proseguito nella loro azione criminale, ferendo o uccidendo le loro vittime.
Un ultima annotazione prima di chiudere questo breve approfondimento tecnico (salvo vostre ulteriori richieste): non bisogna assolutamente confondere la letalità di un proiettile con il suo potere di arresto. Un piccolo 22 long rifle può uccidere tanto quanto un 5,56 Nato, anche se, molto probabilmente, non lo farà istantaneamente.
Breve approfondimento sui giubbotti anti proiettile.
Anche su questo argomento, spesso, cinema e televisione, non danno informazioni corrette.
Ne “Il caso van Helsing”, vengono citati, e, quindi, trovo sia il caso di fornire un minimo di notizie.
Anzitutto le protezioni balistiche individuali si distinguono tra rigide e morbide.
Quelle rigide sono delle vere e proprie corazze, pesanti, scomode e ingombranti, tanto da rendere difficoltosi i movimenti di chi ha la sfortuna di indossarle. Ormai desueti, questi giubbotti sono stati quasi ovunque sostituiti da quelli morbidi o semi rigidi.
I giubbotti moderni sono realizzati generalmente da un contenitore esterno, detto carrier, che contiene i pannelli balistici veri e propri. Ne esistono di vari tipi, i più usati sono costituiti da più strati di fibre aramidiche intrecciate (kevlar), o tessute e incollate su microfilm di polietilene (twaron e spectra) che, deformandosi plasticamente, sono in grado di assorbire e disperdere l’energia cinetica dei proiettili, impedendone la penetrazione.
Ovviamente, quanti più strati si usano, tanto maggiore sarà l’efficacia del giubbotto, a scapito però di ingombro, morbidezza e peso.
Questo tipo di materiali assicura la protezione contro i proiettili per arma corta, mentre, per calibri più performanti (5,56 e 7,62 Nato o il 7,62×39 del Kalasnikov), è necessario aggiungere piastre in materiali metallici (acciaio o titanio balistico) o ceramici (carburo di boro, carburo di silicio) inserendole in apposite tasche.
Inutile dire che, con tali aggiunte, il peso lievita, raggiungendo e talvolta superando i 10 chili.
Un aspetto negativo dei giubbotti morbidi è che l’impatto di proiettili causa comunque traumi per la deformazione dei pannelli balistici che trasmette al corpo parte dell’energia assorbita.
Tale effetto viene chiamato trauma indotto (blunt trauma) e la sua gravità, che varia da ematomi, fratture, fino a lesioni interne, talvolta anche mortali, è direttamente proporzionale all’energia/velocità del proiettile e inversamente proporzionale al numero di pannelli adoperato.
Attualmente i modelli più evoluti sono corredati da appositi tappetini che disperdono su una maggiore superficie l’energia cinetica, riducendo così, almeno in parte, il problema.
Numero elevato di pannelli e protezione anti blunt trauma, però, aumentano peso e spessore del giubbotto, fattore ininfluente quando viene indossato sopra il vestiario, ma che ne rende difficile, se non improponibile, l’uso “nascosto”.
Esiste infatti una specifica categoria di protezioni balistiche “invisibili”(undercover), destinate a Vip, o a civili a rischio, ma anche alle forze dell’ordine che operano in particolari servizi (scorta, in borghese ecc.).
Questi giubbotti sono chiamati “sottocamicia” appunto perché si indossano sotto tale vestiario e, privilegiando anzitutto l’occultabilità, devono giocoforza rinunciare a qualcosa in fatto di sicurezza.
Il criterio più conosciuto per stabilire il livello di protezione dei giubbotti è quello adottato dalla normativa statunitense N.I.J 0108.01 che li suddivide il 6 classi: I; IIA; II; IIIA; III e VI.
Tralasciando quelli appartenenti alla prima classe, ormai desueti, arriviamo alla IIA, quella alla quale appartengono la maggior parte dei sottocamicia, e che assicura la protezione da proiettili calibro 357 magnum con palla JSP (punta soffice) di 10,24 grammi con velocità fino a 381 m/s e da 9 Parabellum (e 9×21) con proiettili blindati di 8,05 grammi e velocità fino a 332 m/s. Si passa quindi al livello II che garantisce contro gli stessi proiettili, ma dotati di velocità superiori (426 m/s per il 357 e 358 m/s per il 9 mm.); si arriva alla classe III A, che rappresenta il massimo livello raggiungibile dai giubbotti morbidi senza l’aggiunta delle piastre rigide o semirigide, e che protegge dal 9 mm. con velocità di 426 m/s, 44 magnum (palla a punta soffice) fino a 426 m/s e palla unica calibro 12 (per intenderci quella sparata dai fucili a pompa). Le classi III e IV sono in grado di fermare proiettili di fucile.
Occorre infine precisare che i test di resistenza sono limitati a un solo proiettile, e quindi, più colpi che colpiscano il giubbotto a breve distanza tra loro, potrebbero perforarlo, trovando le fibre già stirate dal proiettile precedente. Solo particolari modelli esterni, definiti “multi strike”, quasi sempre semi rigidi, sono garantiti contro raffiche di più colpi.
Altre precisazioni sui test, riguardano l’angolazione di impatto dei proiettili (il test prevede solo l’impatto perpendicolare, mentre una angolazione marcata potrebbe rappresentare un problema) e il tipo di palla testato, che, per il 357 magnum, prende in considerazione solo quelle a punta soffice (JSP), ignorando quelli blindati, liberamente acquistabili, e senza considerare quelli da 125 o 110 grani, molto più veloci.
Discorso a parte riguarda l’uso di proiettili perforanti (riservati solo ai militari), che, anche se di piccolo e medio calibro, sono in grado di superare con facilità le protezioni appartenenti alla classe IIIA.