Festa di Carnevale
Un racconto di Sergio Faccini
I – La festa.
Non ho mai amato le feste, ma quelle in maschera le ho sempre odiate.
Specie a Carnevale.
Non sopportavo dover partecipare agli assurdi balli collettivi, subendo stridenti strombettii, perversamente suonati a pochi centimetri dalle orecchie, e fastidiosi getti di coriandoli che, cartacei pidocchi, si infilavano sotto la biancheria intima.
Purtroppo questa volta non potevo svicolare.
Anna era stata molto chiara: “Se non vieni alla mia festa, puoi anche cancellare il mio numero dal cellullare”.
Sospirai.
Anna era al vertice della sparuta piramide delle mie amicizie. Se l’avessi perduta, mi sarebbero rimasti solo Piero, Gianni e Mario. Il primo, si era trasferito a trecento chilometri di distanza, il secondo stava per sposarsi, e Mario…beh era Mario. Ogni tanto una serata con lui poteva anche andare, ma solo se intervallata da tre o quattro settimane di decantazione.
Ero arrivato in taxi: scelta obbligata, sia perché la mia vecchia e malridotta Golf ultimamente faceva le bizze, ma anche per quanto avrebbe stonato, parcheggiata accanto a nuovissime e fiammanti BMW, Mercedes e Porsche.
Anna abitava in un antico palazzo appena fuori dal centro, ereditato una dozzina d’anni prima da uno zio ultraricco, morto, si mormorava, sul più bello, durante uno dei suoi frequenti festini a base di coca, viagra, e attraenti ragazzine.
Non che lei avesse mai patito la fame: proveniva, come me, da una famiglia della media borghesia, ma il lascito dello zio l’aveva resa ricca in modo indecente.
Ci conoscevamo dalle elementari, e, a suo merito, dovevo ammettere che non si era scordata dei vecchi amici, anche se ora frequentava amicizie altolocate.
L’imponente cancello di ferro battuto era spalancato, sorvegliato ai lati da due uomini, formato armadio a quattro ante, vestiti con delle buffe uniformi, simili a quelle delle Guardie Svizzere.
Mentre mi avvicinavo, mi scansionarono come se fossero dotati di vista a raggi X.
La smorfia malcelata che apparve sui loro volti mi fece capire che ero stato catalogato tra gli straccioni che tentavano di imbucarsi.
Sbuffai frustrato.
Porca puttana! E pensare che questo cazzo di costume da Re Luigi XV mi è costato quasi due stipendi!
Mi fissai i piedi doloranti.
Avevo pagato quelle assurde, scomodissime, scarpette di vernice, con tanto di grande fibbia dorata, il quadruplo delle mie Clarke preferite.
Per non parlare che, con addosso quelle lunghissime calze di seta bianca che finivano nelle braghette a sbuffo strette appena sotto il ginocchio, e la camicia tutta pizzi e ricami, mi sentivo un perfetto idiota.
Speriamo che non mi abbia visto nessuno.
Quasi, quasi…
Stavo valutando se tornarmene subito a casa, già immaginandomi, il giorno dopo, mentre telefonavo ad Anna, col naso stretto tra il pollice e l’indice, fingendo un improvviso devastante raffreddore…
«Signore?», chiese uno dei due Bulldog vestiti da paggio.
«Luigi Cantieri», risposi automaticamente, colto alla sprovvista.
Quello srotolò una lunga pergamena, probabilmente fatta a mano, la scorse rapidamente, poi, visibilmente sorpreso di trovare il mio nome, con un sforzo palese, mi concesse uno svogliato sorriso di circostanza. «Prego, si accomodi», mi invitò, con una voce assurdamente acuta.
Eh, gli steroidi!
Maledicendo gli assurdi tacchetti delle mie calzature, avanzai con una certa difficoltà sul ghiaino del viottolo alberato che conduceva all’ingresso del palazzo.
Per l’occasione, l’imponente facciata era illuminata da potenti fari, che la tingevano di rosa.
Senza smettere di sentirmi un coglione, inspirai profondamente, ed entrai nell’immenso ingresso che dava sull’altrettanto vasto salone.
La festa si svolgeva in entrambe le stanze.
Lunghe tavole, imbandite con ogni ben di Dio, correvano addossate alle pareti, e una cinquantina di tavolini rotondi in stile fine ‘800, con quattro sedie ciascuno, erano stati disposti ai lati dei locali, lasciando spazio al centro per danzare.
Alzai gli occhi agli altissimi soffitti, impreziositi da affreschi settecenteschi, con i meravigliosi lampadari, irrimediabilmente rovinati da pacchiane stelle filanti appese tra le centinaia di preziose gocce di purissimo cristallo.
La musica, proveniente da un’orchestrina composta da una decina di elementi, posizionata nell’angolo più distante del salone, assordava allegramente l’intero ambiente.
La festa era già iniziata da almeno un’ora.
Ero arrivato volutamente in ritardo, nella speranza che gli invitati fossero ormai troppo impegnati a chiacchierare tra loro, o a corteggiarsi, per notare un povero imbecille, vestito con un ridicolo costume, che si aggirava tra loro come un pesce fuor d’acqua.
Invece, appena entrato, Anna mi venne incontro sorridendo, trasformata per l’occasione in un’orchidea, con miriadi di cristalli Swarovski, preziose gocce di rugiada, sui petali.
«Luigi!», mi salutò, tentando di abbracciarmi nonostante l’ingombrante vestito. «Come sono contenta che sei venuto!».
«Non mi hai lasciato scampo».
Lei scoppiò in una delle sue risate allegre che mi avevano conquistato il primo giorno che l’avevo conosciuta.
Aveva un paio di anni meno di me.
Piccola, minuta, e agile come un furetto, naso un po’ troppo grosso su quel visetto allungato da topino, bocca grande e labbra piene, occhi castani, ravvivati da una luce d’incontenibile allegria, non si poteva definire una bellezza da far girare la testa, ma era carina, e aveva sempre avuto parecchi ammiratori, che conquistava con la simpatia e l’acuta intelligenza.
Fece un passo indietro, e mi rimirò dalla testa ai piedi. «Sei bellissimo!»
Sì, come no.
«Meno male che ho trovato anche il parrucchino bianco, altrimenti i miei capelli avrebbero rovinato tutta la maschera», scantonai.
«Non capisco cos’hai contro i tuoi capelli: sono fantastici!»
«Infatti mi chiamavano tutti Gigi carota!»
Lei ridacchiò. «Ma dai, era alle elementari! Adesso, con quei riccioli di fuoco e gli occhi verdi che ti ritrovi… sei davvero un gran figo. È curioso che tu non abbia già una moglie o almeno una fidanzata. Se non ti conoscessi, e non avessi ricevuto le confidenze di qualche mia amica…».
«Quelle che ti ostini a presentarmi nel tentativo di accasarmi!», la rimproverai ridendo.
«Proprio quelle, che, dopo qualche notte di fuoco, hai mollato. Eppure ce n’erano almeno un paio…».
«Lascia perdere, Annina, vedrai che prima o poi incontrerò quella giusta».
«Magari a questa festa!».
Pensai alla tipologia degli invitati.
Figurati, proprio l’occasione adatta!
Sorrisi, senza commentare.
Un elegantissimo Mandrake la chiamò, e lei, scusandosi, mi strizzò l’occhio e se ne andò.
II – L’incontro.
Mi aggiravo tra gli invitati.
Erano tutti a coppie o a gruppetti di tre o quattro, e tentavano di conversare, combattendo una battaglia persa in partenza contro la musica assordante.
Non conoscevo nessuno, e nessuno sembrava voler conoscere me, anche se, mentre gironzolavo per la festa con in mano un calice di Krug alla giusta temperatura, mangiucchiando beluga iraniano e piccolissime tartine di salmone scozzese, avevo notato più di un’occhiata, lanciatami da alcune ragazze.
Erano tutte vestite con abiti costosissimi, probabilmente disegnati per l’occasione da qualche stilista al modico prezzo di un’automobile di media cilindrata.
Truccate alla perfezione, poche erano meno che attraenti, qualcuna senz’altro bella, ma i loro sorrisi forzati, e lo sguardo vacuo, non mi attiravano per nulla.
Stavo prendendo in considerazione una ritirata strategica, quando, durante un’ennesima panoramica, mi soffermai su una figura che, stranamente, non avevo notato prima.
La ragazza spiccava tra la folla multicolore come una pantera in un branco di gazzelle.
Valutai che fosse circa un metro e settanta, ma talmente longilinea da sembrare molto più alta.
Inguainata in un’aderentissima tuta di nappa nera, si muoveva come se stesse danzando, seguendo una melodia che solo lei sembrava udire.
I movimenti erano un’incredibile fusione tra ferina sensualità e aristocratica eleganza.
I lunghi capelli color argento ricadevano lisci fino alle reni, seguendo il ritmico movimento ipnotico delle anche.
Mi precipitai verso di lei, fendendo la folla come una nave solca le onde.
La raggiunsi.
Devo vederla in viso!
Era l’unico pensiero che mi riempiva la mente.
La superai e, con una mezza giravolta, l’affrontai.
Mio Dio!
Il cuore cessò di battermi nel petto, il respiro mi si mozzò in gola… era una meraviglia della natura!
Ammirai stupefatto quell’ovale perfetto, l’ampia fronte, le ciglia lunghissime, come di cristallo, un impertinente nasino a punta leggermente all’insù, una bocca dalle piene labbra vermiglie dalle quali spuntavano aguzzi canini. Fissai estasiato due impossibili occhi dalle iridi gialle come l’oro zecchino, dove spiccavano strette pupille verticali.
È truccata da vampira, ma che trucco, ragazzi! Deve aver speso un capitale!
Era tutto studiato alla perfezione: dalle lenti a contatto, al colore dei capelli, dalle sopracciglia e ciglia cristalline, alla carnagione che sembrava di ghiaccio, quasi trasparente, molto più bianca della mia, ma senza traccia di efelidi.
«Sei davvero incredibile!», mormorai, mentre il cuore riprendeva a battere all’impazzata.
Lei mi fissò.
Sembrava stupita.
«Ma tu, mi vedi?», chiese.
Se già il mio cuore non fosse stato trafitto dalla sua bellezza, sarebbe bastata quella voce, calda e leggermente roca, a conquistarmi.
«Cazzo se ti vedo!», esclamai, ridacchiando come un cretino.
«Non amo i termini volgari», ribatté lei.
Erano le esatte parole che mi ripeteva nonna, quando, da ragazzino, mi sfuggivano le parolacce.
«Scusami, non volevo…», balbettai.
Con uno scatto improvviso, veloce come l’assalto di un cobra, il viso, leggermente reclinato, si avvicinò a pochi centimetri dal mio collo. La sentii annusare profondamente.
Restai immobile, sconcertato da quello strano comportamento.
«Sangue di strega», mormorò, come se questo spiegasse tutto.
Si allontanò di qualche decina di centimetri e mi fissò in viso. «Capelli rossi», osservò, notando qualche ricciolo ribelle che usciva dalla parrucca. «Occhi verde smeraldo», proseguì, come non fossi lì. «Sicuramente discendi da una strega», concluse soddisfatta.
Ero imbarazzato, sia per la vicinanza di quella magnifica ragazza, ma soprattutto per quello strano gioco che sembrava voler giocare con me .
Dev’essere una patita dei giochi di ruolo fantasy.
Decisi di assecondarla, sperando di convincerla a continuare a divertirsi con me.
«In effetti, una mia trisavola era originaria di Salem…», azzardai.
Lei aggrottò la fronte. «Umm, direi più un discendente della Southeil, o, più probabilmente, di qualcuna del covo di Triora», obbiettò seria.
Io ridacchiai sempre più imbarazzato, ma fermamente deciso a stare al gioco.
Mi fissò negli occhi. «Non hai paura di me?».
«Se vuoi tutto il mio sangue, sarei felice di donartelo», le risposi, prendendole delicatamente una mano dalla pelle d’alabastro, cosparso di microscopici strass.
Che mani fredde. Deve avere ben poco sangue nelle vene, e, per un “vampiro”, non dev’essere il massimo!
Mi sfuggì una risatina.
«Ti faccio ridere?», mi chiese, mentre un’ombra attraversava quelle incredibili iridi da felino notturno.
Chissà di che colore ha gli occhi, dietro le lenti.
«Scusami, sto facendo la figura di un idiota, ma sei talmente bella che mi offuschi la mente».
Lei distese le labbra vermiglie in un timido sorriso. «Davvero mi trovi bella?».
Un’altra frase come questa e mi scioglierò come neve al sole.
Raccolsi tutto il coraggio che avevo, le sollevai la mano, e, chinandomi leggermente, la sfiorai con le labbra.
Il suo sorriso si allargò agli occhi.
«Sei molto gentile», sussurrò. «E anche galante».
«Dal tono sembrerebbe che tu non ci sia abituata».
«È proprio così», ammise candidamente.
Figurati! Bella com’è avrà spezzato centinaia di cuori.
La vocina interiore, il mio grillo parlante, mi avvertì: “Stai attento Luigi, non ti innamorare di questa qui, o ti farai un gran male!”.
Sbuffai mentalmente.
Innamorarmi? L’ho appena conosciuta!
La fissai sorridendole. «Mi stai prendendo in giro?».
«Ti assicuro che è la verità», insistette lei. «Tra di noi non si usa il corteggiamento. Il sesso è un’attività necessaria alla procreazione, può anche dare piacere, ma non necessariamente. Gli accoppiamenti, in effetti, avvengono assai di rado».
Ero allibito.
Mi sa che mi sta pigliando per il sedere.
La fissai intensamente.
Sembra sincera…
Contro ogni logica, decisi di crederle.
«Allora, almeno per il corteggiamento, è proprio il caso di rimediare», annunciai.
L’orchestrina aveva intonato un walzer. «Vuoi ballare? A proposito, mi chiamo Luigi, Luigi Cantieri».
«Naamah», mi rivelò, seguendomi verso la pista.
«Che c…razza di nome è?».
«È un nome ebraico, molto antico».
Certo che questi snob hanno dei gusti davvero strani: affibbiare un nome simile alla propria figlia!
«Ti chiamerò Namy, Okay?».
«E io Gigi».
Sobbalzai.
Odiavo quel soprannome e, dal compimento del mio tredicesimo compleanno, avevo fatto in modo che nessuno osasse più chiamarmi così. Lei però l’aveva pronunciato “Ji-Ji”, alla francese, che è tutta un’altra cosa… e poi,… avrebbe anche potuto chiamarmi Topo Gigio o Gatto Silvestro: non me ne sarebbe importato assolutamente nulla!
Danzava come una farfalla.
Dovevo sforzarmi di non perdere la concentrazione nel timore di vederla volar via, ritrovandomi solo in mezzo alla sala.
Rapidamente i nostri corpi impararono a volteggiare assieme, come se fossero un tutt’uno.
Al terzo ballo, un lento, eravamo avvinti come un’edera al suo albero.
«Allora Namy, pensi ancora di prosciugarmi? O sono troppo simpatico?».
Rise di gusto, gettando all’indietro la testa.
Osservai la perfezione dei denti appuntiti e dei lunghi canini, simili a piccole zanne.
Sembrano veri. Deve aver speso un patrimonio dal dentista!
Non ci pensai più, e, dopo un altro paio di balli, mi feci forza, e le sfiorai le labbra con le mie.
Di colpo si irrigidì.
«Scusa, ho esagerato?».
Lei sorrise e ricominciò a ballare, ma vidi un’ombra adombrarle lo sguardo.
«Che cos’hai? Sto forse infrangendo qualche regola? Pensi che i tuoi non approverebbero una storia con uno come me?», le chiesi sarcastico.
Stavo scherzando, ma la sua risposta mi spiazzò.
«Questo è sicuro», ammise senza esitazioni. «Ma non me ne importa nulla!», concluse ridendo. «Non mi sono mai divertita così tanto!».
«Ti accontenti davvero di poco».
«Mi piaci, Ji-Ji. Mi piaci davvero tantissimo e, per la prima volta in vita mia, provo qualcosa che per me era soltanto un sentito dire».
I casi sono due: o sto sognando, o mi sta prendendo per il culo.
“E’ decisamente più probabile la seconda ipotesi, anzi puoi starne certo”, si premurò di avvertirmi il mio grillo parlante. “Ma ci fai o ci sei? Uno schianto di ragazza, ricca da far schifo, intelligente, colta e spiritosa… che s’innamora di te dopo un paio di balli! Svegliati ragazzo, o qui finisce male!”.
Avvertimento inutile, perché ormai era troppo tardi.
Non avevo mai creduto che il “colpo di fulmine” esistesse realmente, tanto meno che potesse accadere a me, e, invece…
Nell’ultimo remoto angolino ancora funzionante della mia mente, mi rendevo conto che era una pazzia, ma non riuscii a trattenermi. «Lo so che ti parrà impossibile, ma mi sto innamorando di te», le confessai.
Istintivamente mi irrigidii, in attesa di una risata di scherno, o di uno schiaffo, invece, Namy mi baciò, e fu un incredibile, meraviglioso bacio, nonostante le finte zanne un po’ troppo affilate..
Dopo qualche bacio appassionato ci guardammo negli occhi, ridacchiando come due bambini che avevano appena rubato il vasetto della marmellata dalla dispensa.
«Anna ha parecchie camere per gli ospiti al piano di sopra…», proposi, mentre il cuore batteva all’impazzata.
Lei abbassò lo sguardo e, timida come una liceale d’altri tempi, annuì.
III – L’Amore trovato.
Di quella notte ho ricordi confusi.
Fu come un tornado di sensuale pazzia.
Namy non era certo la mia prima esperienza, ma nulla fu paragonabile all’estasi che provai.
Compresi la differenza tra fare sesso e fare all’amore.
Passammo ore a danzare, instancabili ballerini, seguendo gli antichi ritmi del cuore.
In più di un’occasione mi parve che stesse attenta a non lasciarsi travolgere dalla passione. Una sola volta sembrò lasciarsi andare e, gemendo di piacere, mi morse una spalla.
Sentii scorrermi il sangue sul petto.
Lei lo leccò avidamente mugolando, poi, con una mossa fulminea, si scostò, allontanandosi da me .
«Scusami Ji-Ji, non volevo farti male!», singhiozzò.
«Non è niente, Namy, dai torna qui», la rassicurai.
In realtà faceva un gran male, ma non importava: per lei mi sarei strappato il cuore dal petto.
Riprendemmo a danzare, ma con dolcezza, come le onde che, dopo la tempesta, accarezzano lo scoglio.
Il canto dell’allodola ci colse ancora abbracciati, io madido di sudore, lei fresca come una rosa bagnata dalla rugiada mattutina.
«Adesso devo proprio andare Ji-Ji», mi disse, con una vena di malinconia nella voce.
«Eh già, voi vampiri con la luce del sole non andate proprio d’accordo», la canzonai.
Lei abbassò lo sguardo e annuì.
È proprio fissata con questo gioco di ruolo.
«Quando possiamo rivederci?», chiesi, mentre raccoglievo gli slip appallottolati da sotto il letto.
«Addio, Ji-Ji, non mi scorderò mai di te».
Le parole rimasero sospese nell’aria ancora fredda. Mi alzai di scatto girandomi verso di lei…
Nella stanza ero rimasto solo io.
La portafinestra era spalancata, con le tende che si agitavano alla brezza della notte ormai morente.
Un pensiero agghiacciante mi attraversò la mente.
Cristo, si è buttata!
Il poggiolo dava sul giardino, a una decina di metri d’altezza.
Mi precipitai fuori, nudo come un verme, con le mutande in mano, e guardai verso il basso, trattenendo un urlo disperato che mi stava nascendo in gola… nulla. Nessun corpo straziato, nessun groviglio di bellissime gambe spezzate, nulla.
IV – L’Amore perduto.
La mattina trovai Anna che faceva colazione con Mandrake.
Si chiamava Edoardo, e me lo presentò come il suo nuovo fidanzato.
«Te la sei spassata, vecchio briccone!», mi salutò ridendo.
Vedendo la mia espressione, il sorriso scomparve di colpo. «Ehi, ma che diavolo ti è successo? Stai male?», mi chiese preoccupata.
Non persi tempo a risponderle.
«Conosci tutti gli ospiti di ieri sera?», feci, mentre mi lasciavo cadere pesantemente su una sedia di fronte a lei.
«Che domande, li ho invitati io!».
«C’era una ragazza, bellissima, mascherata da vampira…», cominciai.
«Dio che pacchianeria!», commentò Edoardo.
Gli lanciai un’occhiata che avrebbe incenerito Lucifero, e ripresi come se non mi avesse interrotto.
«Dicevo, una splendida ragazza in tuta nera di nappa, coi capelli argentati lunghissimi, la pelle chiara e gli occhi…». Riflettei un attimo. «Oddio, con tutto quel trucco… e adesso come faccio a ritrovarla?».
«Direi che stavolta ci siamo!», annunciò ridendo Anna. «Signori e signore, rullino i tamburi, suonino le trombe… Luigi si è finalmente innamorato!».
«Non scherzare, sono disperato: non la ritroverò più!».
«Calmati, abbiamo la lista degli invitati, e le telecamere esterne li hanno ripresi quando sono entrati nel parco».
«Devo vedere le registrazioni, subito, ti prego!», la implorai.
Smise di ridere: «hai preso proprio una bella cotta, amico mio. Adesso chiamo Alessandro, il capo della sicurezza. Vedrai che nel giro di mezzora risolviamo tutto. Certo che però, anche tu, lasciarla andar via senza nemmeno chiederle il nome…».
Balzai in piedi di scatto, rovesciando la sedia. «Si chiama Namy, cioè Naamah!».
«Che cavolo di nome è? Non conosco nessuno che si chiama così!», fece Anna.
Alfonso tossicchiò con discrezione.
«Che c’è caro, la conosci?».
Mandrake mi rivolse un sorriso di sufficienza.
Chissà perché stavo sempre antipatico a tutti i fidanzati di Anna!
«Temo che ti abbia perso per il culo, Gigi», rispose, gongolando per la soddisfazione.
«Ti ho già detto di non chiamarlo mai così…», intervenne Anna.
La bloccai col gesto d’una mano.
«Se sai qualcosa, sei pregato di dirmelo».
«Naamah è il nome giudaico di un antico e terribile demone femminile dal bellissimo aspetto: è ovvio che si è presa gioco di te».
Strinsi i pugni fino a farmi male.
Vedendomi in quello stato, la mia amica si affrettò a rincuorarmi: «non preoccuparti, ci sono le riprese, la troveremo».
V – Epilogo.
Non andò così.
Namy non compariva in nessun filmato.
Mentre io precipitavo nella più assoluta disperazione, Anna smosse mari e monti, chiese a tutti quelli che avevano partecipato alla festa se ricordassero e conoscessero la ragazza che aveva ballato con me, ma nessuno si rammentava di lei.
Dopo due settimane, quando ormai mi stavo arrendendo, rinacque imprevista la speranza.
Due giovani invitate avevano ripreso alcuni momenti della festa con i loro cellulari. Non si erano fatte avanti prima perché Anna aveva espressamente vietato di girare video o scattare foto, e ne avevano temuto la reazione.
Scaricammo i file su un computer e li visionammo su un grande schermo Led.
Trattenni il fiato, stringendo convulsamente la mano della mia amica, quando mi rividi parlare con Namy, che però era di spalle.
Attesi con ansia le immagini del ballo, ma una nuvola lattiginosa le avvolgeva il viso, rendendo impossibile identificarla.
Anna interpellò i migliori tecnici esistenti, ma nessuno seppe dare una spiegazione convincente del problema, né tantomeno riuscirono a risolverlo, fino a quando, uno di loro, azzardò che il trucco della ragazza contenesse qualche elemento in grado di riflettere le lunghezze d’onda luminose che venivano usate per le riprese digitali, accecando in tal modo le telecamere dei cellulari.
L’ipotesi venne subito sposata dagli altri esperti, felici d’aver trovato una spiegazione razionale a quell’enigma.
Anche il morso sulla mia spalla venne esaminato da un famoso docente universitario di biologia e da alcuni dentisti e odontotecnici.
Il primo escluse in maniera categorica che esistesse un animale con una simile dentatura. Assomigliava solo vagamente a quella, assai più piccola, di certi pipistrelli che si nutrono di sangue animale.
Gli altri professionisti interpellati, ci rivelarono che, specie negli Stati Uniti, alcuni loro colleghi costruivano dentiere per i membri di club di sedicenti vampiri, e che, alcuni di questi pazzoidi, arrivavano a farsi incapsulare, o addirittura impiantare, lunghi canini al posto dei propri denti.
La conclusione fu che Namy fosse una facoltosa ragazza un po’ svitata, con la mania dei vampiri, che si era imbucata alla festa, truccata in modo da accecare le telecamere.
Il mattino seguente, aveva inscenato la sua magica scomparsa nascondendosi, probabilmente nell’armadio, mentre io cercavo gli slip sotto il letto, avendo cura di aprire la portafinestra. Quando mi ero precipitato al balcone, lei se l’era svignata, uscendo dal nascondiglio e scendendo dalle scale.
In seguito, scoprii che la mia famiglia materna era davvero originaria della provincia di Imperia, nella zona chiamata Valle Argentina, e che, proprio in quei luoghi, precisamente al Borgo di Triora, si era tenuto, alla fine del Millecinquecento, il più famoso processo alle streghe svoltosi in Italia.
L’unico elemento di tutta questa storia che non trovò una spiegazione scientifica fu che la ferita di quel morso non guarì mai completamente, quasi fosse una sorta di marchio indelebile, anche se, per fortuna, mi provocava al massimo un fastidioso prurito.
Questa storia mi segnò profondamente, e, da allora, dedicai tutto me stesso al lavoro.
In breve, i dirigenti della prestigiosa società dove lavoravo si resero conto che non sbagliavo mai nel giudicare l’affidabilità di clienti e fornitori, quasi fossi in grado di leggere le loro menti, azzerando di fatto ogni rischio per l’azienda.
In breve divenni, prima un dirigente, e poi, un rinomato e strapagato libero professionista.
Adesso mi sto avvicinando ai quaranta, e sto pensando di metter su famiglia.
Anna, che in questi anni mi è stata sempre vicina, dopo svariate esperienze finite male, è giunta alla conclusione che l’unico matrimonio con buone possibilità di durare nel tempo è quello tra due intimi amici, specie se si è tali da innumerevoli anni.
Io concordo con lei.
Ci sposeremo questo settembre.
Tuttavia, e questo lei lo sa, non posso negare di essere ancora prigioniero di Namy, e che probabilmente non guarirò mai da quella ferita.
Ogni anno, all’ultimo di Carnevale, partecipo alle feste di Anna.
In un remoto angolo dell’anima, spero ancora di ritrovare quella bellissima vampira che mi rubò il cuore, sì, perché, qui lo ammetto, ma ufficialmente sempre lo negherò, un dubbio in proposito, ancora ce l’ho.
FINE
2021© Sergio Faccini.
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, persone ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’Autore. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti, è da ritenersi puramente casuale. Questo racconto contiene materiale coperto da copyright, e non può essere copiato, noleggiato, licenziato, trasmesso in pubblico. O utilizzato in qualunque altro modo ad eccezione di quanto è stato specificatamente permesso dall’autore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile (Legge 633/1941).
Nota dell’autore: come tutte le altre schegge postate sul sito, anche questo è un mio vecchio racconto, rispolverato per l’occasione, senza che sia stato sottoposto all’editing che solitamente precede la pubblicazione. Stile e punteggiatura sono quindi quelli originali di parecchi anni fa.
In particolare, questo racconto strizza l’occhio al genere light fantasy in voga in USA tra gli anni ’20 e metà anni ’70 del secolo scorso, dove però il soprannaturale si limitava a streghe e maghi, perché a quei tempi, con l’eccezione dell’ironico film di Polanski “Dance of the Vampires” (per favore non mordermi sul collo) del 1967, i vampiri erano solo mostri relegati esclusivamente al genere Horror o Dark fantasy. Il Light fantasy, letterariamente quasi sconosciuto in Italia, ebbe la sua massima notorietà quando nel 1942 Hollywood produsse il famoso film “I Married a witch” (Ho sposato una strega) con la regia di René Claire, e interpretato da una favolosa Veronica Lake e dalla stupenda Susan Hayward. Assai meno fortunato in Italia, ma apprezzato negli USA,”Bell, Book and Candle” (Una strega in paradiso) con James Stewart, Kim Novak e Jack Lemmon. vennero prodotte anche alcune serie televisive, la più famosa è senza dubbio la simpaticissima “Vita da strega”(1967-1972). Novelle, racconti e romanzi brevi, di quell’epoca, sono difficilmente reperibili in Italia, tra i pochi, ricordo l’antologia di racconti, “Tempo di streghe” (1970) di James E. Gunn (Galassia nr. 164)… se lo trovate nell’usato, non esitate ad acquistarlo. Dello stesso autore, ben più noto come scrittore di fantascienza, va ricordato il romanzo breve “The Magicians” (1976) da cui hanno tratto spunto numerosi autori, anche contemporanei.